Reati contro la libertà sessuale: lo stato di alterazione volontaria della vittima non scrimina

IL FATTO
Dichiarato in primo ed in secondo grado responsabile del reato di cui all’art. 609-bis, comma 2, C.P., perché di notte, all’interno della camera da letto della propria abitazione, abusando delle condizioni di inferiorità fisica e psichica della persona offesa, che aveva assunto volontariamente bevande alcoliche durante la serata e sostanza stupefacente del tipo di cocaina nel pomeriggio, costringeva la vittima a subire atti sessuali mentre dormiva, Tizio ricorreva in Cassazione lamentando, col primo motivo (rigettato), il vizio di motivazione e travisamento della prova (lo stato di ubriachezza della vittima, a suo dire insussistente) e col secondo, terzo e quarto motivo (dichiarati inammissibili), la mancata concessione delle circostanze attenuanti (affermando quello essere il reato de quo di “minora gravità”).
LA DECISIONE
Con la dichiarazione di manifesta infondatezza del primo motivo, la Corte di Cassazione ha innanzitutto evidenziato che, secondo il proprio costante orientamento, il Giudice di merito può trarre il suo convincimento sulla responsabilità penale dell’imputato anche dalle sole dichiarazioni rese dalla persona offesa, sempre che sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità, senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all’art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen., che richiedono la presenza di riscontri esterni.
Sul punto, in particolare, gli Ermellini hanno ribadito che le dichiarazioni della persona offesa possono essere poste, anche da sole, a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale dell’imputato, previa verifica, più penetrante e rigorosa rispetto a quella richiesta per la valutazione delle dichiarazioni di altri testimoni, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto e, qualora risulti opportuna l’acquisizione di riscontri estrinseci, questi possono consistere in qualsiasi elemento idoneo a escludere l’intento calunniatorio del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto, né assistere ogni segmento della narrazione, posto che la loro funzione è sostanzialmente quella di asseverare esclusivamente ed in via generale la sua credibilità soggettiva.
La valutazione dell’attendibilità della persona offesa, hanno proseguito i Giudici di Piazza Cavour, involge un’indagine positiva sulla credibilità soggettiva del dichiarante e sulla attendibilità intrinseca del racconto, che si connota quale giudizio di tipo fattuale, ossia di merito, in quanto attiene al modo di essere della persona escussa; tale giudizio può essere effettuato solo attraverso la dialettica dibattimentale, mentre è precluso in sede di legittimità, specialmente quando il giudice del merito abbia fornito una spiegazione plausibile della sua analisi probatoria.
Nella fattispecie in esame e, nello specifico, sulla questione dell’asserita, errata valutazione delle prove, i Giudici di appello -ha concluso sul punto la Corte- hanno confermato l’affermazione di responsabilità dell’imputato per il reato contestato, richiamando la ricostruzione in fatto e le valutazioni del primo giudice, fondate sulle dichiarazioni rese dalla persona offesa, coerenti e dotate di credibilità soggettiva in ordine alla narrazione dell’episodio contestato.
Ritenuto dunque acclarato il fatto, i giudici di legittimità si sono concentrati sulla definizione del “consenso”, affermando preliminarmente che ogni situazione di approfittamento dell’assunzione di sostanze stupefacenti o alcoliche da parte della vittima, ancorché avvenuta per libera iniziativa della stessa e, comunque, per causa non imputabile all’agente, debba essere sempre ritenuta idonea ad integrare il reato di violenza sessuale.
In proposito, richiamando la propria consolidata giurisprudenza, la Corte ha ricordato che tra le “condizioni di inferiorità psichica o fisica”, previste dall’art. 609-bis, secondo comma, n. 1 cod. pen., rientrano appunto anche quelle conseguenti alla volontaria assunzione di alcolici o di stupefacenti, in quanto anche in tali casi la situazione di menomazione della vittima, a prescindere da chi l’abbia provocata, può essere strumentalizzata per il soddisfacimento degli impulsi sessuali dell’agente.
Non rileva, quindi, l’eventuale consenso prestato dalla vittima, giacché esso è viziato ab origine dalla condizione di menomazione della stessa, ma rileva la consapevolezza dell’agente della situazione di inferiorità psichica in cui versi la persona offesa e il fatto che, in ragione di tale situazione la medesima non possa esprimere un valido consenso in forza delle condizioni in cui si trovi, situazione che l’autore del fatto sfrutta per accedere alla sfera sessuale della vittima.
Va precisato che, giusto sul tema del consenso ed, in particolare, relativamente al labile confine sussistente tra la “mancanza di consenso” e la “manifestazione di dissenso”, ai fini della configurazione del reato di violenza sessuale di cui all’art. 609-bis C.P., la Cassazione si era già pronunciata con la sentenza n. 19599 del 10 maggio 2023 così affermando:
– “Integra l’elemento oggettivo del reato di violenza sessuale non soltanto la condotta invasiva della sfera della libertà ed integrità sessuale altrui realizzata in presenza di una manifestazione di dissenso della vittima, ma anche quella posta in essere in assenza del consenso, non espresso neppure in forma tacita, della persona offesa, come nel caso in cui la stessa non abbia consapevolezza della materialità degli atti compiuti sulla sua persona (Cass.22127/2016)”;
– “Ai fini della consumazione del reato di violenza sessuale è richiesta la mera mancanza del consenso, non la manifestazione del dissenso, ben potendo il reato essere consumato ai danni di persona dormiente (Cass. 22127/2016)”;
– “Non è ravvisabile in alcuna fra le disposizioni legislative correnti un qualche indice normativo che possa imporre, a carico del soggetto passivo del reato un onere, neppure implicito, di espressione del dissenso alla intromissione di soggetti terzi nella sua sfera di intimità sessuale, dovendosi al contrario ritenere che tale dissenso sia da presumersi e che pertanto sia necessaria, ai fini dell’esclusione dell’offensività della condotta, una manifestazione di consenso del soggetto passivo che quand’anche non espresso, presenti segni chiari ed univoci che consentano di ritenerlo esplicitato in forma tacita (Cass. 12628/2019)”
e concludendo: “In sostanza, nei reati contro la libertà sessuale, il dissenso è sempre presunto, salva prova contraria”.
A termine della breve disamina che intrattiene, non può qui per completezza d’esposizione non segnalarsi la recente Cassazione n°19638 del 17 maggio 2024, secondo la quale il consenso agli atti sessuali, non solo deve sussistere nei modi così come sin qui delineati, ma deve perdurare nel corso dell’intero rapporto senza soluzione di continuità, con la conseguenza che integra il reato di cui all’art. 609 bis cod. pen. anche la prosecuzione del rapporto nel caso in cui, successivamente ad un consenso originariamente prestato, intervenga “in itinere” una manifestazione di dissenso, anche non esplicita (quindi anche se non espressa verbalmente ma evidente attraverso segnali non verbali di disagio o rifiuto), ma per fatti concludenti chiaramente indicativi della contraria volontà, sì da obbligare il partner a fermarsi e non procedere oltre.
Il consenso, precisa la Cassazione, non è un atto statico, ma un processo dinamico che deve essere costantemente rispettato, di talché un consenso originariamente prestato può diventare invalido se durante l’atto emergono condizioni -anche auto-causate, tipo l’assunzione volontaria e spontanea di droghe ed alcool- che privano la parte offesa della capacità di esprimere un consenso libero e consapevole.
Le alterazioni psicofisiche, insomma, come uno stato di ebbrezza o come qualsiasi altra forma di compromissione della capacità mentale, possono dunque influire sulla validità del consenso il quale, da quel momento, diventa assolutamente invalido.
Dal combinato disposto di cui alle menzionate sentenze emerge, in definitiva, che per escludere il reato di violenza sessuale non si può prescindere da un consenso espresso, il quale, per essere valido, deve essere vieppiù presente e consapevole per tutta la durata dell’atto sessuale, durante il quale le parti coinvolte devono essere in grado di esercitare una volontà libera e informata in ogni fase della relazione.
Un principio apparentemente semplice e scontato, verrebbe da dire, quasi naturale, se non fosse così tragicamente smentito dai quasi quotidiani, assurdi ed intollerabili fatti di cronaca.